Presupporre, a monte del processo decisionale, sia di un forte confronto con il territorio, sia l’introduzione di innovazioni tecnico-metodologiche e procedurali capaci di gestire e integrare la conoscenza dei tecnici con quella delle istituzioni e delle comunità locali. Sono questi due elementi imprescindibili nei processi di realizzazione delle grandi infrastrutture, come quelle dell’alta velocità, affinché le stesse possano essere condivise e diventare possibilmente un’opportunità di sviluppo anche per i territori e le popolazioni coinvolte. È quanto sta emergendo dagli studi condotti nell’ambito del progetto europeo "Poly5 – Polycentric planning models for local development in territories interested by Corridor 5 and its Ten-t ramifications", finanziato – per circa 2 milioni di euro - nell’ambito del programma "Spazio alpino 2007-2013" e che coinvolge 10 partner internazionali, coordinati dalla provincia di Torino. Lo riferisce Sandro Fabbro, coordinatore scientifico del progetto, docente di progettazione e pianificazione del territorio del Dipartimento di Ingegneria civile e architettura dell’Università di Udine.

"L’Università di Udine, con quelle di Monaco e Vienna - precisa Fabbro - sta in questo momento studiando un diverso modo di approcciare la questione delle grandi infrastrutture. La domanda di fondo è: una grande infrastruttura, voluta da istituzioni di più alto livello, è per territori e comunità locali solo un danno da evitare o da compensare, o può anche diventare un’opportunità di sviluppo?". In particolare, in un periodo di forti contrasti sull’alta velocità, Sandro Fabbro sostiene che "in linea generale, essa può diventare un beneficio anche per i territori locali attraversati, purché si determinino una serie di condizioni, di merito e di metodo, che ancora non sono contemplate né nella procedure, né nelle progettazioni infrastrutturali del nostro Paese. L’alta velocità è diventata un demone da combattere sempre e comunque perché i governi, fin dai primi anni Novanta, l’hanno calata dall’alto come una soluzione chiusa e preconfezionata, mentre, invece, avrebbe dovuto essere gestita e adattata agli specifici territori come si sta tentando di fare ora, con grande fatica, in Val di Susa attraverso modalità che sono ancora sperimentali e "sotto schiaffo” dei movimenti No tav".

I progetti dell’alta velocità, così come altre gradi opere infrastrutturali, "dovrebbero presupporre - spiega Fabbro - a monte del processo, un forte confronto con il territorio, con le sue caratteristiche e i rischi a esso connessi, con le comunità interessate e le loro legittime visioni di sviluppo. Come, peraltro, hanno fatto diversi altri Paesi europei, evitando così le violenze e le prove di forza che si sono determinate in Val di Susa". Inoltre, "dovrebbero essere introdotte, nelle stesse procedure di pianificazione e progettuali - continua Fabbro - innovazioni tecnico-metodologiche attraverso una più attenta ed efficace capacità di catturare e gestire la ricca e complessa conoscenza, non solo tecnico-scientifica, ma anche delle istituzioni e delle comunità, capace di informare ogni progetto di grande trasformazione che si voglia sufficientemente condiviso".


Fonte: Ufficio stampa - Università di Udine